Fare pubblicità ingannevole, attribuirsi qualità di ecosostenibilità che in realtà non si hanno, mentire, barare. Sono questi i concetti che delimitano i confini del greenwashing, la pratica sconsiderata con cui ancora troppe aziende in tutto il mondo, piccole o grandi che siano, “lavano” di verde tutto quello che è associato al loro lavoro: dai prodotti, ai messaggi B2C, dai processi industriali fino alla stessa brand identity.
Il fine evidente del greenwashing è quello di superare sul versante della sostenibilità la prova fiduciaria con l’opinione pubblica e, soprattutto, con quella larga parte di consumatori in cui è sempre più evidente una propensione all’acquisto di prodotti non inquinanti, riciclabili, creati all’interno di filiere virtuose e circolari da imprese certificate ESG. Per stare sul mercato, dal settore automobilistico a quello alimentare, da quello elettronico a quello tessile, bisogna stare al passo con i tempi. Tempi che ormai sono scanditi da tematiche come eco-design dei prodotti, riciclo di materie prime, transizione ecologica, zero emissioni. Accorpare mendacemente questi concetti ad attività che di essi non tengono conto è quello che si intende per fare greenwashing, un’arma che ne colpisce molti, ma che ferisce mortalmente solo l’ambiente.
Quando mi hanno proposto di inaugurare questo spazio, la “Rubrica del Presidente”, ho pensato di trattare questa tematica, appunto il greenwashing (dal vocabolario Treccani: “Strategia di comunicazione o di marketing perseguita da aziende, istituzioni, enti che presentano come ecosostenibili le proprie attività, cercando di occultarne l’impatto ambientale negativo”), proprio per mettere in evidenza come tale pratica non configuri solamente comportamenti moralmente riprovevoli come l’attuazione di concorrenza sleale o la diffusione di messaggi ingannevoli da parte degli autori, ma sia anche un vestito scuro (per niente verde) cucito sulle responsabilità d’impresa, un errore di valutazione che potrebbe sembrare banale, ma che ha ripercussioni ben più ampie e complesse sulla società, sulla finanza, sullo stesso Pianeta.
Del fenomeno sono osservatore privilegiato perché ho la possibilità di guardarlo, e tentare di contrastarlo, da due posizioni differenti. La prima, come General Manager CS di Panasonic, una delle più grandi e storiche aziende di tecnologia al mondo, che attualmente è impegnata nel programma Green Impact, sviluppato sui tre scopi del Green House Gas Protocol per ridurre drasticamente, entro il 2030, le emissioni di CO2 associate alle sue attività dirette, a quelle dei suoi fornitori e a quelle della sua clientela. La nostra visione è chiara: siamo passati dal 20° secolo, in cui l’agiatezza era un bene, al 21° in cui il benessere non ha alcun senso se non va di pari passo con uno stile di vita sostenibile. Chi, come noi aziende, detta i tempi dell’Innovazione tecnologica e del progresso sociale, non può sottrarsi dal rispettare questo binomio tra benessere e vita sostenibile ed evitare di compiere qualsivoglia forma di compromissione, come il greenwashing è senza dubbio. Basterebbe, come ricordano gli amici di EconomiaCircolare.com, fare una seria analisi LCA (Life Cycle Assessment) sul ciclo di vita dei prodotti per essere davvero “green” e garantire che ogni bene abbia bassi impatti ambientali dalla “culla alla tomba” o, ancor meglio, “dalla culla alla culla”.
Come dicevo poi, ho anche la fortuna di ricoprire un’altra posizione che mi dà ogni giorno la possibilità di “Fare un lavoro che, se fatto bene, fa bene al mondo” ed è la mia carica come Presidente di Erion WEEE, il più importante Consorzio non profit per la gestione dei RAEE. Questo mio secondo punto di osservazione mi dona il privilegio, e la responsabilità, di essere in prima linea sulle tematiche ambientali, affiancando la crescita di una realtà che si adopera veramente per offrire un reale contributo all’Economia Circolare. Quando si lavora per un player che, come Erion, ha nel suo DNA valori come qualità, trasparenza, efficienza, innovazione e impegno sociale, il livello di attenzione verso chi agisce in modo opposto rimane alto. Quando si programma un lavoro su un’agenda fatta d’impegni assoluti come il riciclo della materia, l’abbattimento delle emissioni, la tutela dell’ambiente e della salute pubblica, si impara a distinguere chiaramente l’operato di quei soggetti che lavano – o ci provano più o meno goffamente – col colore verde dinamiche economiche ancora legate a un anacronistico modello lineare di produzione, uso e consumo dei beni.
Il mondo sta cambiando a un ritmo serrato sulla spinta delle nuove generazioni che, come mai prima d’ora, guardano al domani partendo dall’oggi e chiedono giustizia in ogni ambito del vivere, dall’educazione all’ambiente. Non basteranno mille lavaggi verdi a resistere indenni a queste spinte epocali. Serve cambiare davvero e serve farlo ora.
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