La recente pubblicazione dei sette bandi del Ministero della Transizione ecologica (MiTe) per finanziare l’ammodernamento e il consolidamento dell’infrastruttura impiantistica nella gestione dei rifiuti rappresenta il cigno nero nella gestione dei rifiuti.
Una pioggia di denari da parte dell’Unione europea, destinati a finanziare il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). Dei 2,6 miliardi di euro complessivi, 1,5 miliardi saranno dedicati a realizzare nuovi impianti di gestione dei rifiuti e ammodernare quelli esistenti; altri 600 milioni vanno ai cosiddetti progetti faro, sulle filiere di carta e cartone, plastiche, rifiuti da apparecchiature elettriche ed elettroniche (Raee) e tessili. Il 60% di questi fondi va alle Regioni del Centro e del Sud Italia (Toscana, Marche, Umbria, Lazio, Molise, Abruzzo, Campania, Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia, Sardegna) e ci sono meno di cinque anni per realizzare i progetti, entro giugno 2026.
Tutto bene, dunque? Non proprio.
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Nell’unanime entusiasmo che anima il settore, non mancano nodi irrisolti e domande che chiedono risposte. A cominciare dalla falsa illusione che il problema della gestione dei rifiuti risieda nella mancanza di soldi per costruire gli impianti. La vera iattura è sempre stata la carenza di programmazione e di pianificazione strategica, insieme alla scarsa capacità manageriale nella gestione responsabile dei servizi pubblici, dalla scala nazionale a quella regionale. La presunta mancanza di risorse è stata semmai un facile alibi, comodo nascondiglio per classi dirigenti irresponsabili (nel migliore dei casi) e incapaci che oggi con i bandi sul tavolo si mostrano nude e balbettanti.
Insomma, se fosse solo un problema di quattrini potremmo far festa, ma non è così. Peraltro, l’attuazione del Pnrr si inserisce in un contesto di forte evoluzione della regolazione del settore a cui sta lavorando Arera (l’Autorità di Regolazione per Energia Reti e Ambiente), che ha recentemente evidenziato, appunto, in maniera ufficiale e senza infingimenti, l’assenza di una rete integrata di impianti di raccolta e trattamento rifiuti attribuibile all’insufficiente capacità di pianificazione delle Regioni e, in generale, alla debolezza della governance. Anche per Arera è necessario, appunto, sviluppare un programma nazionale per la gestione dei rifiuti e supportare Regioni, Province e Comuni, viste le problematiche dovute alla mancanza di competenze tecniche e amministrative del personale impiegato. Dal MiTe traspare, invece, un approccio apertamente tecnocratico, vecchio stile, che non tocca affatto i nervi scoperti, semmai li riveste d’oro zecchino.
Per mettere in campo un intervento impostato correttamente, bisogna piuttosto intervenire su una serie di nodi irrisolti che proveremo ad analizzare qui di seguito.
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Il principale limite del piano finanziario, come accennato, è di destinare risorse a proposte progettuali svincolate da qualsiasi programmazione nazionale e persino nell’assenza sostanziale di una vera cabina di regia di natura politica.
Il Piano nazionale di gestione dei rifiuti, previsto dal DLgs 116 del 2020 e dalla stessa Strategia nazionale, cioè dal Pacchetto sull’Economia Circolare del 2020, non è mai stato emanato e le Regioni procedono, come sempre, in ordine sparso. Finanziare gli impianti senza una strategia nazionale e senza criteri univoci rischia di diventare un pericoloso boomerang. Gli impianti sono l’hardware di una pianificazione integrata, sono strumenti e non soluzioni di per sé. Costruire impianti senza un’idea di gestione integrata in ottica industriale di nuova generazione rischia di costituire un errore irrimediabile, alimentando le inefficienze del sistema. Sebbene stando ai bandi i progetti dovranno essere coerenti con i singoli Piani regionali – e anche considerando che spesso questi Piani sono dei libri dei sogni, capaci di far sparire artificiosamente i rifiuti addomesticando i dati sulla prevenzione e sulle performance delle raccolte differenziate –, manca comunque una regia nazionale e un chiarimento di fondo sulla direzione da prendere, a cominciare dalle opzioni tecnologiche e impiantistiche: decidere da che parte andare è dirimente. La scienza e la tecnologia non sono mai neutre.
Se fino a oggi non si è fatto abbastanza, principalmente nelle Regioni del Centro e del Sud, non è dipeso dalla mancanza di tecnologia a disposizione, ma è mancata la testa, la direzione politica, la visione. C’è stata connivenza ai vari livelli per mantenere lo status quo, il vecchio modello lineare, assumendo scelte consapevoli. Per costruire impianti di compostaggio servivano i soldi del Pnrr?
Roma e mezzo Lazio si trovano in piena emergenza non certo perché il Supremo Manlio Cerroni non avesse soldi per fare impianti, anzi. La vittoria delle discariche in Sicilia o in Calabria, per non parlare delle vergognose spedizioni di rifiuti dalla Campania in giro per il mondo non è dipesa dalla mancanza di soldi e/o tecnologia ma dalla totale incapacità politica e gestionale, al netto, ovviamente, degli interessi privati cristallizzatisi attorno a logiche non sempre specchiate. Per capirsi, il problema non sono le discariche in sé ma il sistema che le gonfia di rifiuti che potrebbero andare altrove. Il problema è e rimane di natura politico-amministrativo e manageriale, di chiusura intelligente delle filiere, non è certo una questione impiantistico-tecnologica.
Ora, senza entrare troppo nel dettaglio di queste dinamiche, non ci sono dubbi sul fatto che la responsabilità di molte Regioni nel non aver fatto una buona programmazione, offrendo contorni percorribili di cicli integrati a vocazione industriale, rappresenta, da sempre, il cuore del problema. Se gli impianti a valle non sono sorretti da una buona pianificazione a monte, capaci di attivare filiere efficienti, possono servire a poco se non ad alimentare l’entropia. La vera rivoluzione non è impiegare, senza limiti, energia e risorse per ricavare altra materia e/o energia dagli scarti, in un moto perpetuo, seppure ciò possa apparire “figo e telegenico”, ma dare una governance meditata, efficace, trasparente ed economicamente sostenibile. Se non si risolvono a monte questi nodi, se non si dota il Paese di un perimetro d’azione finalmente sgombro da queste incrostazioni e deficienze, a nulla servono soldi e tecnologia. Ebbene, questo tema cruciale continua a non trovare risposte e a poco o nulla servono i finanziamenti a fondo perduto.
Domanda al ministro Cingolani: non sarebbe bastato finanziare l’attuazione dei Piani Regionali finora approvati, chiudendo i cicli laddove non si è riusciti, stornando buona parte dei finanziamenti verso politiche di formazione (soprattutto per gli amministratori e funzionari pubblici) e di prevenzione, rivolte soprattutto al riutilizzo e alla preparazione per il riutilizzo?
di Antonio Pergolizzi
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