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Bitcoin, un problema di RAEE

Non è un segreto che il “mining” delle criptovalute abbia una grande impronta di carbonio. Il processo richiede legioni di computer affamati di elettricità che lavorano 24 ore su 24 per sbloccare nuove monete risolvendo problemi matematici. Poiché questi ultimi diventano sempre più complessi nel tempo, il sistema premia lo spreco di energia: ogni momento di inattività rende la moneta successiva più difficile da guadagnare e l’unico modo per ottenere un vantaggio sui concorrenti è quello di far funzionare più computer. Mentre il prezzo del bitcoin sale anche le emissioni aumentano di conseguenza. L’impronta di carbonio annuale, a oggi, è paragonabile a quella dell’area metropolitana di Londra.

Il crescente consumo di energia da parte dei Bitcoin ha scatenato un dibattito appassionato sulla sostenibilità della moneta digitale. Eppure, la maggior parte degli studi ha finora ignorato che i “minatori” di criptovalute utilizzano una quantità crescente di hardware a vita breve che potrebbe esacerbare la crescita dei rifiuti elettronici a livello globale. I RAEE rappresentano una minaccia crescente per il nostro ambiente, dalle sostanze chimiche tossiche e i metalli pesanti che lisciviano nei terreni, all’inquinamento dell’aria e dell’acqua causato dal non corretto riciclo. L’e-waste causato dai Bitcoin ammonta a 30.700 tonnellate all’anno (dato di maggio 2021). Questo numero è paragonabile alla quantità di rifiuti di piccole apparecchiature informatiche prodotte da uno Stato come i Paesi Bassi. Ciò significa che due transazioni creano tanti rifiuti quanto un iPad smaltito. Ai livelli massimi di prezzo del Bitcoin registrati a inizio 2021, la quantità annuale di rifiuti elettronici potrebbe crescere oltre 64.400 tonnellate nel medio termine, il che ne evidenzia la tendenza dinamica se il prezzo delle criptovalute sale ulteriormente. Inoltre, la domanda di hardware per il “mining” già oggi sconvolge la catena di fornitura globale di semiconduttori.

Il sistema di estrazione spinge anche i “minatori” a utilizzare solo i chip più recenti, più veloci e più efficienti dal punto di vista energetico, e a scartare quelli più vecchi. Secondo uno studio pubblicato il 16 settembre sulla rivista Resources, Conservation, and Recycling, questo comportamento porta alla creazione di una montagna di rifiuti elettronici. Si stima che la vita media di un chip per il mining di bitcoin sia di soli 1,3 anni. La ricerca si basa su un’analisi del tasso con il quale il nuovo hardware diventa disponibile e ipotizzando che la maggior parte dei “minatori” sostituisca i loro chip secondo quel ritmo.