MENUMENU
Al vertice della piramide rovesciata dei rifiuti troneggia la prevenzione, per dire che il miglior rifiuto è quello non prodotto. Un principio che è un destino tutto da scrivere. Che passa dal cambio dei modelli di produzione, prima ancora che di consumo, da un design capace di incentivare il remanufactirung e il riuso e da processi davvero circolari e aperti, quindi capaci di usare solo materiali facilmente smontabili e ricollocabili sul mercato. La circolarità è fatta di testa, cuore e azione.
Poi ci sono i rifiuti che non è stato possibile evitare di produrre e che non possono essere riparati e riusati tal quale, come una giacca passata di moda o senza bottoni. Per esempio i rifiuti da costruzione e demolizione (C&D), di cui ogni anno ne produciamo circa 60 milioni di tonnellate, la fetta più grossa tra quelli prodotti, più o meno il 43% (Ispra 2019). Si tratta di rifiuti facilmente recuperabili vista la loro stessa natura sostanzialmente omogenea, e poco pericolosi per l’ambiente: trattandosi di inerti sono per definizione quelli con i minori problemi di contaminazione (se si esclude, ovviamente, la presenza di amianto e affini).
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Eppure annaspano ancora tra i gironi dei dannati, logorati da procedure di recupero costose e pedanti e orfani di mercati davvero competitivi, almeno rispetto ai materiali vergini. Così questi ultimi continuano ad alimentare il ciclo dell’edilizia nel classico modello dell’economia lineare, inghiottendo e pezzi di territori, mentre gli aggregati riciclati tipici dell’economia circolare arrancano e i trafficanti di rifiuti ringraziano.
Seppure le stime ufficiali si crogiolano su un 74% di riciclo, in realtà questa percentuale indica solo che questi rifiuti sono passati da un qualche impianto, non certo che sono stati impiegati nei cantieri. Di quel 74%, solo un 15 verrà effettivamente utilizzato. Alcuni operatori, sentiti per scrivere queste righe, ritengono che questa percentuale particolarmente alta di pseudo riciclo sia dovuta, semplicemente, al fatto che i produttori certificano come effettivamente trattati materiali semplicemente stoccati in qualche magazzino, così da non dover esibire alcuna pezza giustificativa per operazioni di smaltimento: un modo semplice per risparmiare sul conferimento.
Al netto di ciò, in questo iato (tra percentuali di riciclo ufficiale stimato ed effettivo impiego nei cantieri), profondo quanto un abisso, si misura una delle tante contraddizioni nel ciclo dei rifiuti: come accade con le raccolte differenziate, la scommessa si vince se, e solo se, gli scarti raccolti in maniera separata finiscono poi per diventare davvero valore. Altrimenti lo sforzo fatto a monte rischia di azzerarsi a valle. E le frustrazioni sono nemici delle buone pratiche.
La gabbia normativa nella quale sono rinchiusi i rifiuti C&D non è facilmente giustificabile. Si tratta di materiali che prima stavano in una parete o in muro di contenimento dando riparo e protezione. Non si capisce perché, appena tirati giù questi materiali prima innocui diventino immediatamente un nemico pubblico. In particolare, il calcestruzzo è completamente riciclabile ed è una fonte alternativa all’impiego di aggregati naturali. La corretta gestione dei rifiuti C&D e dei materiali riciclati – tra cui la corretta manipolazione dei rifiuti pericolosi – può comportare importanti benefici in termini di sostenibilità e qualità della vita, ma può anche offrire considerevoli vantaggi per l’industria delle costruzioni e del riciclaggio dell’Unione europea grazie all’aumento della domanda di materiali riciclati C&D che ne deriva (Protocollo UE per la gestione dei rifiuti da costruzione e demolizione, Commissione UE, settembre 2016: qui in Pdf). Già la Direttiva 98 del 2008 fissava al 2020 il target di riciclo di questa tipologia di rifiuti al 70% in peso rispetto a quelli prodotti nello stesso anno, target confermato anche dalla nuova Direttiva 851/2018. Come già detto, il problema sta nel loro impiego effettivo, ancora disincentivato nei fatti.
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